SACRO & PROFANO

Diocesi di Torino (e Susa) alla conta, "boariniani" alla prova del voto

A un anno dal suo insediamento l'arcivescovo indice le elezioni per il Consiglio presbiteriale che lo affianca nel governo. Dalle urne uscirà la nuova geografia ecclesiale e, soprattutto, si misurerà il consenso del gruppo egemone in curia. Rivella attende lo zucchetto

Trascorso più di un anno dalla sua presa di possesso, l’arcivescovo Roberto Repole ha deciso di costituire il nuovo Consiglio presbiterale e ha indetto le relative elezioni. Ad esse sono chiamati, in ragione dei diversi uffici e delle diverse zone, tutti i presbiteri diocesani, extradiocesani e religiosi di Torino e di Susa che dovranno eleggere la metà dei componenti. In base al diritto canonico vigente, il Consiglio presbiterale costituisce una sorta di senato diocesano, dura in carica cinque anni, ha il compito di «coadiuvare» il vescovo emettendo pareri non vincolanti sulle questioni di maggiore importanza ed è composto da una pletora di membri. I risultati delle votazioni, che si concluderanno entro il 15 gennaio 2024, metteranno in luce, come si dispiegherà la nuova “geografia” ecclesiale e se il gruppo dominante – che disporrà comunque di tutti i membri di diritto (vescovo, vicario generale, vicari episcopali, cancelliere, ecc.) – riuscirà ad avere anche l’egemonia sui risultati che usciranno dal segreto delle urne. In tal caso, il nuovo Consiglio, dato oltretutto il suo carattere consultivo, si ridurrà a mettere il timbro su decisioni già prese. Secondo una battuta che circola tra i preti, uno dei comandamenti del gruppo “boariniano” è “Chi non è con noi è contro di noi!”. La sinodalità, per adesso, è affidata ai sinodi e alla letteratura conseguente e quindi alle parole, come recita il titolo del libretto di don Gianluca Zurra, classe 1976, ordinato nel 2001, capofila del clero progressista albese e docente di ecclesiologia: Parole ritrovate. Appunti per una Chiesa sinodale. Parole appunto.

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Don Giuseppe Russo, pugliese, classe 1966, ordinato nel 1995 dopo una laurea in ingegneria, è stato nominato dal papa vescovo di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti. Il suo ultimo incarico è stato quello di sottosegretario dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (APSA) dove aveva come superiore – in quanto segretario – monsignor Mauro Rivella, attuale parroco di S. Rita. A Torino sono in molti a chiedersi come mai le infule vescovili stiano tardando così tanto a scendere sulle sue spalle. Sarà forse in serbo per lui una diocesi del Piemonte prossimamente vacante?

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Sono passati sessant’anni da quel 4 dicembre 1963 quando i Padri del Concilio Vaticano II approvarono con una larghissima maggioranza (su 2157 votanti, 2147 dissero placet) la Costituzione apostolica sulla liturgia Sacrosanctum Concilium. Nonostante i toni trionfalistici il bilancio, se pure per certi aspetti non del tutto negativo, appare sempre più problematico, perché se a più di mezzo secolo dalla riforma c’è ancora chi la mette in discussione – soprattutto nella sua attuazione – oppure continuano le litanie sulla sua mancata realizzazione, vuol dire che qualche cosa è andato storto. E questo è proprio quello che i liturgisti non vogliono riconoscere. Il cosiddetto Messale del 1965 era quello aderente alla mens dei Padri perché aveva lasciato inalterato il rito tradizionale eliminando, a norma dell’art. 50 di S.C., alcune tardive aggiunte e con l’inserimento della preghiera dei fedeli e delle letture in volgare, ma con la cosiddetta «Messa normativa» del 1969 – bocciata dal Sinodo del 1967 – si creò un nuovo rito che, come ebbe a dire l’allora cardinale Joseph Ratzinger, fu una operazione compiuta a tavolino «che ha comportato la prevaricazione dell’“erudizione ecclesiastica” sulla naturale evoluzione storica con il rischio di concepire la liturgia come il volubile prodotto dei gusti e delle esigenze di una comunità». Ciò che è puntualmente avvenuto.

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Di questi giorni è la fotografia che ritrae il padre somasco Albano Allocco, originario di Riva di Chieri, il quale ha voluto iniziare l’Avvento portando aiuti umanitari in Ucraina e celebrarvi la Messa. Al di là delle sue ottime intenzioni, la desolazione che tale immagine evoca non ha nulla di conciliare e tanto meno di evangelico, ma rinvia soltanto alla deriva e, in fondo, al tradimento di quei principi – la «nobile semplicità» – ai quali i padri conciliari vollero fosse ispirata la riforma liturgica e di cui la nostra rubrichetta, Traditores Custodes, ogni tanto dà conto. Abbiamo cioè un esempio di quella che don Paolo Tomatis definisce in suo recente libretto «una liturgia sciatta e banale estranea al Mistero di Dio». E non si dica che il contesto di guerra non permetteva qualcosa di più dignitoso. Abbiamo tutti visto le fotografie di sacerdoti che officiavano la Messa durante le guerre o i disastri naturali e nei luoghi più impervi, ma da nessuna di esse promanava un tale squallore. Il problema è che qualcosa è andato perduto e si chiama mistero o anche sacralità. Ma su questo punto i liturgisti sono irremovibili e rinviano alle biblioteche dei loro saggi, che ben pochi capiscono e che nessuno legge. La riforma liturgica avrebbe bisogno di una riforma la quale tuttavia, secondo papa Francesco, «è irreversibile», dimenticando che nella Chiesa nessuna riforma è mai irreversibile, come nemmeno lo saranno le sue. Uno solo è irreversibile: Gesù Cristo e il suo Vangelo.

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Ben più efficace – almeno si spera – è l’allarme che con una lettera indirizzata il 3 dicembre ai suoi preti, ha lanciato il vescovo di Lucera (Fg), monsignor Giuseppe Giuliano, dove dice quello che sull’altare non bisogna fare ricordando che esso non è un palcoscenico:
- L’altare non è un palcoscenico dal quale i devoti delle nostre chiese possono esibire il loro afflato religioso
- L’altare non è un palcoscenico per gli amministratori e i politici di dilungarsi in “comizi” retorici e inopportuni
- L’altare non è un palcoscenico dal quale i bambini presentano le loro capacità “artistiche” a vanagloria dei genitori
- L’altare non è, neppure per i sacerdoti, un palcoscenico per mostrare se stessi, oscurando il mistero e la persona di Gesù, che rimane il centro e il fondamento della nostra fede, nonché l’unico vero redentore del mondo.
- Per tutti vale il detto attribuito a Ignazio di Loyola, che rivolgendosi ai suoi confratelli amava dire: Ricordati che il Messia c’è già, è uno solo e non sei tu.

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Con un atto che non ha precedenti, il papa della misericordia, dopo che da anni lo aveva privato delle sue funzioni, ha tolto lo stipendio e cacciato dal suo appartamento il cardinale Raymond Leo Burke, definito «un nemico». Molto soddisfatti i progressisti più ottusi, assai meno quelli accorti e intelligenti per una misura – arbitraria e degna del regime nord-coreano – che esacerberà ancora di più gli animi e acuirà le tensioni.  Quali siano le colpe del cardinale statunitense non è affatto chiaro perché aver presentato dei Dubia – domande di chiarimento – non è un crimine contro l’unità della Chiesa o un attentato al papato, ma un atto perfettamente legittimo. Non è un atto di ostilità ma l’espressione – come sottolineava il compianto cardinale Carlo Caffarra – di amore al papa e al suo compito primario di difendere il depositum fidei. Una critica ben diversa dalle becere contestazioni nei confronti di San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI dai tanti che oggi – guarda a caso – sono diventati i più strenui difensori dell’infallibilità papale, anche quando si tratta di dichiarazioni ai giornalisti in aereo o interviste televisive.

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